Lo scorso 4 novembre il cantautore irlandese Damien Rice ha finalmente rotto un silenzio durato ben otto anni e dovuto ad un auto-esilio dal mondo della musica e dello show-business, rilasciando il suo terzo disco My Favourite Faded Fantasy.
L’annuncio della pubblicazione dell’album, inaspettato, ha sorpreso quanti ormai temevano che l’allontanamento dalle scene del cantautore fosse ormai diventato permanente. E’ bene però chiarire in partenza che chi credeva – o sperava – che questa lunga assenza potesse cambiare o rivoluzionare lo stile di Rice rimarrà inevitabilmente deluso: chi abbiamo di fronte è un uomo quarantenne, col suo vissuto sulle spalle e ormai consapevole di se stesso ma non un artista diverso da quello dei due lavori precedenti (O e 9).
My Favourite Faded Fantasy – un titolo che sembra un’ironica risposta preventiva ai detrattori – non può che confermare lo stile ormai consueto del cantautore, fatto di arrangiamenti delicati, talvolta essenziali ma altrettanto densi; testi che risulteranno anche banali per chi vuole guardare a Rice con scetticismo, ma resi incisivi ed efficaci dalla sua “solita” profondissima interpretazione. Pesa l’assenza della voce di Lisa Hannigan – come pure pesa, o forse ha pesato, l’assenza dell’artista nella vita di Rice, come sembra di capire dal brano The greatest bastard – ma si fa apprezzare il contributo di Marketa Irglova, Alex Somers (collaboratore dei Sigur Ros e compagno di vita del leader della band, Jonsi) e soprattutto quello del produttore Rick Rubin, ormai vero e proprio re mida della musica americana, artefice del successo del disco 21 di Adele.
Il brano che dà il titolo al lavoro è anche lo stesso che è chiamato ad aprire il disco: My favourite faded fantasy è aperto dalla voce del cantautore e da un arrangiamento che punta all’essenzialità e che cresce con il passare dei minuti. E’ puro stile Damien Rice, così come l’avevamo lasciato.
It takes a lot to know a man è un pezzo che riesce senza fatica nell’impresa ardua di mantenere sempre attenta l’attenzione dell’ascoltatore, nonostante i suoi quasi dieci minuti di durata. Riesce a farlo grazie ad una struttura irregolare, scandita da continue accelerazioni e rallentamenti della musica, e da un arrangiamento che è in assoluto tra le migliori produzioni di Rubin. Il lungo finale strumentale è probabilmente uno dei momenti più alti e intensi del disco e, forse, dell’intera discografia di Rice.
The greatest bastard, come si diceva, probabilmente evoca nel testo l’assenza della collega e compagna di vita Lisa Hannigan (“Sono il più grande bastardo che conosci/l’unico che ti ha lasciato andare/l’unico a cui non sopporti di far tanto male/Stavamo bene quando stavamo bene/quando non c’erano fraintendimenti”) e non sarà quindi solo un caso se risulta essere anche il brano più vicino ai due dischi precedenti di Damien Rice.
Il singolo di lancio del disco, I don’t want to change you, è ancora una power ballad in cui il cantautore riversa tutto se stesso con estrema sincerità.
Colour me in è, assieme a It takes a lot to know a man, uno dei momenti maggiormente riusciti di questo terzo lavoro. Sebbene si tratti di uno schema ormai noto, la voce di Rice, qui esaltata al massimo, e il trionfo di archi riescono comunque a regalare un momento di estrema intensità.
The box permette ancora una volta di valorizzare l’interpretazione e la voce del cantautore, accompagnata qui solo da una chitarra e un pianoforte a tratti impercettibile.
Trusty and true, con i suoi otto minuti il secondo brano più lungo del disco, rientra a pieno titolo nella categoria del folk più tradizionale, che nel finale lascia lo spazio ad un inaspettato coro gospel.
Long long away esattamente come un cerchio che si chiude ricorda molto da vicino Cold water, uno dei brani più apprezzati del disco d’esordio di Rice. Da sottolineare gli echi che rimandano alle sonorità tipiche della band dei Sigur Ros, originaria di Reykjavik, dove il cantautore ha soggiornato per un lungo periodo in questi otto anni.
Il risultato è comunque un album che lascia la garanzia di un talento cristallino, capace di consegnare al mercato un capolavoro assoluto come O nel 2002 e di poter riproporre la stessa formula tredici anni dopo, senza snaturarsi e con altrettanta efficacia. Nonostante un periodo d’assenza estremamente lungo – in otto anni, nella musica, cambiamo le mode, si impongono stili – Rice ha confermato di non essere disposto a piegarsi alle logiche del mercato e di essere un musicista nell’accezione più nobile del termine.
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