Il nuovo album di Lady Gaga è uscito il 12 novembre, ma ha saputo far parlare di sé ben prima.
Le ragioni? Diverse, a partire dal titolo: ARTPOP.
Miss Germanotta – colei in una manciata di anni ha tirato fuori dal cilindro una quantità di idee con cui altre avrebbero tirato avanti per l’intera carriera – ha definito il suo lavoro un’opera d’arte. E non si è limitata a dirlo ma, per sottolineare il concetto, si è avvalsa della collaborazione di artisti in senso proprio quali Marina Abramovic e Jeff Koons.
Un nuovo album composto da 15 tracce in fin dei conti pop dance, con incursioni abbastanza spinte nell’elettronica, toccata e fuga hip hop, esperimento R&B e un’unica sola vera ballata Dope (il brano Gipsy inizialmente ne dà l’idea ma si apre poi in maniera decisamente “discotecara”).
Eppure all’ascolto pare che manchi qualcosa. C’è molto dentro, testi che vogliono essere impegnati, suoni più duri… Una volontà di stupire ed innovare abbandonando le proprio certezze. Dove sono i cori da cantare a squarcia gola di Bad Romance, i ritornelli immediati di Poker Face e Alejandro? E la potenza dirompente di pezzi come Born This Way?
È certo che ripetersi è difficile in termini di successo (agli MTV Europe Music Awards Lady Gaga non ha vinto nessun premio), poco auspicabile in termini di creatività e nuove idee musicali. E Germanotta, che odia ripetersi e lo ha dimostrato, non è di certo una che se ne sta con le mani in mano. Ma la sensazione complessiva che resta dopo l’ascolto è quella di una fase di transizione, un esperimento, un calderone di idee (alcune buone, altre meno) che potevano essere sviluppate diversamente. Magari alla vecchia maniera.
In definitiva, è probabile che definire l’album un’opera d’arte sia eccessivo, tuttavia chi non risica non rosica ed è quantomeno da apprezzare il costante sforzo per rinnovarsi. Anche se in questo momento il prodotto finale finisce col non essere né carne né pesce.
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