Si può essere contemporaneamente moderni e nostalgici? Si può amare contemporaneamente la musica dance e il blues? Si può creare un sound che riesca a coniugare generi così diversi? Tristan Casara – in arte The Avener – se lo è chiesto e con The Wanderings of the Avener ha provato a darci una risposta.
Quando nell’ottobre del 2014 uscì il singolo Fade Out Lines nessuno immaginava che avrebbe scalato le classifiche di tutto il mondo. Fino a quel momento Casara era solo un ex-studente di musica classica di Nizza, amante del funk del soul e dell’R&B. Un deejay e ghost producer che, stanco della concorrenza parigina, decide di mollare tutto e viaggiare per l’Asia; poi, tornato in Francia, prova a pubblicare su Soundcloud – una piattaforma virtuale dove i musicisti possono registrare, caricare, promuovere e condividere la propria opera gratuitamente – due minuti di Fade Out Lines e in un battito di ciglia conquista l’attenzione di alcune etichette discografiche tra cui l’Universal. A quel punto, assunto il nome di The Avener e pubblicato il pezzo, il successo diventa immediato. Casara è impreparato a tal punto che solo tre mesi dopo, il 19 gennaio 2015 per l’esattezza, presenta il suo primo album: The Wanderings of The Avener.
La particolarità di questo disco sta nell’idea del cambiare o – per meglio tradurre il concetto di rework che Casara utilizza spesso – di rielaborare in chiave moderna brani già esistenti. E’ il caso ad esempio di Celestial Blues, canzone soul di Andy Bey uscita nel 1974, dove un basso tamburellaggiante sembra quasi ricostruire l’atmosfera ambigua di una periferia semideserta newyorkese. O del pezzo del 1966 It Serves You Right To Suffer, in cui la sensualità della voce di John Lee Hooker rifulge in un ritmo cadenzato dal suono delle trombe, donando a tutti l’inusuale esperienza uditiva di un blues suonato come un pezzo dance. O di Waitin’ Round To Die brano del 2003 del gruppo country folk canadese The Be Good Tanyas o di Hate Street Dialogue del riscoperto Sixto Rodriguez, in cui l’anima folk di entrambi si colora di ritmate sfumature elettroniche.
Ma come qualsiasi intrepido esperimento (musicale e non) che si rispetti, accanto a buone prove ci sono anche dei risultati insoddisfacenti, come Your Love Rocks o We Go Home che ben poche variazioni mostrano rispetto al pezzo originale o ancora Waiting Here e Fade Into You a testimonianza che non sempre le ciambelle escono con il buco.
Anche se pezzi strumentali come Panama – una perfetta intro strumentale da film poliziesco e atmosfera soft, con gli ottoni che personalizzano la base elettrica – o La Tourre riequilibrano indiscutibilmente la bilancia, che alla fine non può non pendere a favore di Tristan Casara se addirittura in suo onore ci si è scomodati a parlare di “folktronica”, ossia un genere di canzoni cantautorali con beat elettronico.
Il miracolo di unire sound diversi, generi opposti come il blues e l’elettronica, la dance e il jazz, si realizza in effetti in canzoni come Lonely Boy, brano cantato dai Black Keys nel 2011 e qui riproposto come una canzone folk, scortato da un beat elettronico dato da tastiere e chitarre; in Castle In The Snow, secondo singolo estratto in cui risalta la sensualità della voce di Kadebostany o in To Let Myself Go, la cui base elettronica veloce e ritmata è accompagnata da accordi di chitarra. Ma il vero protagonista dell’album è senza dubbio Fade Out Lines, brano con cui ha conquistato un disco d’oro alla velocità della luce e in cui una sonorità anni ’70 accarezza l’ascoltatore cadenzando le parole di una voce un po’ black secondo un ritmo nostalgico e, contemporaneamente, molto raffinato.
The Wanderings of the Avener è quindi a conti fatti un esperimento ben riuscito che ridiscute la solidità dei confini dei generi musicali e il senso di impermeabilità che spesso (e a questo punto anche erroneamente) li accompagna, e di cui Fade Out Lines appare essere l’archetipo migliore.
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