Le discografie ufficiali piazzano un luogo ed una data di nascita ben precisi per il grunge: metà anni ’80 in quel di Seattle. La data di morte è pressoché insindacabile: il grunge di fatto muore suicida il 5 aprile 1994. Se però prendiamo per buona una schematizzazione del genere musicale in una serie di chitarre non sempre accordate alla perfezione, le linee vocali urlate, quando non volutamente stonate, e i testi, così come le vite di chi li scrive, intrisi di alcool e droghe più varie che eventuali, allora il primo vagito del Grunge possiamo piazzarlo molto prima nella linea del tempo, e molto più lontano sull’asse spaziale.
Più precisamente parliamo dell’Inghilterra del ’69. Neanche a dirlo la magia nasce negli studi di registrazione di Abbey Road ad opera dei Pink Floyd, che il 27 luglio pubblicano Soundtrack from the film More, per l’appunto colonna sonora dell’opera di debutto More di Barbet Schroeder.
“More” è un terzo disco perfetto, e, per quanto semi-dimenticato dalle radio e dalle discografie ufficiali, è il vero anello di congiunzione tra i Floyd di Syd Barret e la storia che ne consegue.
Certo, More è distante anni luce dalle architetture sonore da stadio dei vari Delicate Sound of Thunder, così come dall’impegno di Another Brick in the Wall e dagli assoli gilmouriani che ogni buon chitarrista conosce a memoria. È altrettanto vero però che, pur sfruttando la fama lisergica del vecchio Syd, a partire da More, cominciano a prenderne le distanze dal punto di vista puramente sonoro.
Fanno così capolino le ballate acustiche come “Green is the colour”, ottima avvisaglia degli autori che saranno, e le distorsioni, sia chitarristiche che vocali di “The Nile Song”, che, come detto poc’anzi, non avrebbero sfigurato se fossero state pubblicate 20 anni dopo e diverse miglia più in là verso ovest.
La collaborazione tra i Pink Floyd e il regista Schroeder nasce da una stretta correlazione tematica tra il film e la realtà in cui sguazzavano felicemente i Floyd: sesso libero, feste, alcool, droghe e spacciatori. Ciò che però sembra essere la ricetta esplosiva per una vita perfetta per l’universo allora giovanile, non tarda a mostrare il lato peggiore della tragedia e di un declino fisico oltre che morale che attende chi fa uso di droghe pesanti. Ciò che quarant’anni dopo sarebbe stato un servizio di Studio Aperto, a quei tempi era a pieno titolo cinema d’autore. Moralismi a parte, la collaborazione ha dato vita ad un vinile che, per motivi di spazio fisico, contiene 13 dei 15 brani della colonna sonora.
Il disco si apre con “Cirrus Minor”, che spicca per la tastiera di Richard Wright, che accompagna le prime immagini di perdizione dei protagonisti in una spirale discendente, che si spegne in un cinguettio di uccelli prima di lasciare posto a The Nile Song, vero e proprio gioiellino antesignano sonoro del grunge che verrà, nonché pezzo unanimemente riconosciuto dalla critica come il pezzo più heavy della discografia finora conosciuta del gruppo inglese. A seguire la delicata “Crying Song”, ballad dai suoni leggeri e dai toni delicati che, condito da strumming di chitarre acustiche, non è che un assaggio, per quanto ottimo, delle ballad che seguiranno in More e nei dischi successivi. Come un pugno allo stomaco arriva “Up the Khyber” (alla lettera “su per il Khyber”, valico Afgano, ma, più realisticamente, “su per il c…” nello slang londinese), un viaggio lisergico di due minuti e tredici di free jazz, nonché primo brano strumentale della storia Floydiana. A farla da padrona la batteria di Nick Mason, che entra a gamba tesa con un ritmo tribale in pieno stile Gene Krupa sul quale intervengono gli incisi di piano e l’inconfondibile sound degli organi Hammond. Il flusso sonoro torna subito calmo con “Green is the Colour”, ballad non degna, per qualità di composizione e di produzione, della successiva. A fare capolino sono gli svolazzi flautistici di Linda, moglie di Nick Mason. Al falsetto un poco convinto e neanche troppo convincente David Gilmour, nonostante la composizione portasse la firma di Roger Waters. La prestazione non all’altezza di Green is the Colour è subito perdonata dalla traccia numero sei, “Cymbaline”, autentico gioiellino di cui i Floyd facevano già ampio uso nei concerti e che, finalmente, trova degno spazio su disco. Unico protagonista sonoro, più che lo strumming di chitarra acustica delle ballad precedenti, l’ipnotico assolo di Hammond che dal vivo doveva durare ben più dei pochi secondi su disco.
Segue “Party Sequence”, minuto scarso di bonghetti e percussioni africane nella quale interviene Linda Mason con il solito flauto, stavolta però in maniera più funzionale allo scopo della musica, che doveva accompagnare la scena di un party fricchettone ad Ibiza. La scena riproduce l’immaginario collettivo dell’epoca: figli dei fiori, bonghetti, gente che pomicia in giro e pasticche quanto basta.
Molto più interessante è la “Main Theme”, altro pezzo strumentale che il regista utilizza come Ouverture e chiusura. I ritmi e i suoni sono ipnotici: la batteria entra, interviene ed esce dal pezzo con quei suoni di gong che avrebbero caratterizzato i suoni maestosi delle produzioni successive. Quando Mason non usa il gong, anticipa con un loop ipnotico quella sequenza di batteria che avrebbe fatto grande il trip-hop dei Massive Attack svariati (e svariati, e svariati) decenni dopo. Complici le scale orientali del solito Hammond di Wright e gli scarni ma incisivi assoli di chitarra di Gilmour.
“Ibiza Bar” segue la stessa struttura di The Nile Song. Gli accordi variano di pochissimo, ma il sound di chitarra, i fill di batteria non cambiano di una virgola e anche la voce di Gilmour si ripete nelle stesse grida, ma il risultato finale è ben lontano dalla spontaneità e la qualità della seconda traccia.
Standard anche il risultato di “More Blues”, puro esercizio di tecnica solistica blues per la chitarra di David Gilmour, che si limita a seguire il solito tempo blues di batteria. Se non fosse una colonna sonora, sarebbe difficile trovare una collocazione nella totalità dell’opera.
Di tutt’altra pasta “Quicksilver”, che strizza l’occhio al passato psichedelico dei tempi barrettiani, pur essendo distante anni luce da quelle energie esplosive. La canzone è lunga e articolata. Ben sette minuti di pura sperimentazione strumentale. Anche qui a fare da protagoniste le svise del tastierista Wright.
Tanto interessante quanto breve l’esperienza di “A Spanish Piece”, piccolo pezzo dalle sonorità ispaniche che però, forse per limiti fisici di spazio sull’LP, non viene sviluppato in tutte le sue potenzialità, limitandosi a strizzare l’occhio alla musica iberica per un solo minuto. Un’occasione persa che acquisisce senso nell’ottica della colonna sonora, però deprivata da uno spagnolo biascicato in maniera non troppo convincente dal solito David Gilmour.
A chiudere l’album è “Dramatic Theme”, blues glissato ben intriso di delay che sottolinea i momenti che anticipano l’epilogo.
More va ascoltato e considerato in relazione al resto della discografia floydiana alla luce di due elementi. Il primo, indispensabile: è una colonna sonora. Ciò significa che le parti di cui è composta devono essere svincolate l’una a l’altra. Ciò giustifica l’andamento altalenante delle composizioni – a dirla tutta non sempre eccelse –, la cui fruzione va vista nell’ottica multimediale. Ascoltare una colonna sonora senza vedere il film da cui è tratta è all’incirca come vedere un film in groenlandese senza sottotitoli. Il secondo, non meno indispensabile, è che, come già detto, si tratta di un lavoro di congiunzione tra due fasi complesse della storia floydiana. Appena orfani di Barrett, a metà strada tra la sperimentazione psichedelica ma già lontani anni luce da “Interstellar Overdrive”, e la grandiosità di “The Dark Side of the Moon” (senza dimenticare il più vicino Meddle, annus domini 1971), già pronti a ballads del calibro di “Cymbaline”, ma ben lungi dal successo di “Wish you were here”, anno di grazia 1975.
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