Dopo il precedente Black and White America, album del 2011 dagli intenti nobili ma dalla critica stroncato, e una serie di partecipazioni cinematografiche di grande successo (due film della serie Hunger Games, The Butler, The Blind Bastards Club), Lenny Kravitz è tornato lo scorso settembre con un nuovo progetto – Strut – che ha il difficile compito di riprendere le fila di una carriera negli ultimi anni troppo in bilico.
Nonostante gli impegni sul set, Kravitz ha quindi trovato anche il modo per poter lavorare ai brani inediti del disco, di cui – come di consueto – ha curato ogni aspetto: ne ha firmato i testi, li ha arrangiati, l’ha interamente prodotto e ha pure suonato chitarre, tastiere, percussioni e bassi, avvalendosi solamente dell’aiuto del chitarrista Craig Ross, di una sassofonista, di un trombettista e di tre coristi.
Il risultato è una produzione corposa e diretta, che strizza ancora una volta l’occhio alle sonorità degli anni ’70. “Questo disco mi ha riportato indietro ai tempi del liceo – ha dichiarato Kravitz, non a caso – a quello che davvero amo della musica”. Ma nonostante le intenzioni iniziali di ritornare alle sonorità dei primi lavori, Strut pare essere semplicemente il naturale prosieguo dei suoi ultimi predecessori: sempre più funk e molto, molto meno rock. Non che questo sia necessariamente un male, l’album riesce comunque a proporre momenti felici e ben riusciti, ma la sensazione di qualcosa già sentita è dietro l’angolo.
Il disco è aperto dal secondo singolo promozionale Sex, un brano piacevole che fa esattamente quello che ci si aspetta: il basso energico sostiene un testo pop che esplode e convince soprattutto nel ritornello. Il ritmo rimane incalzante anche con The Chamber, rilasciata già a fine giugno prima dell’uscita ufficiale del disco, altro pezzo in pieno stile Krevitz in cui al rock si unisce con grande abilità dell’ottimo funk.
Dirty White Boots è forse il brano che meglio rappresenta l’intero disco ed è sicuramente uno dei più riusciti. Il ritmo cadenzato, le strofe blues e il ritornello aggressivo lo rendono estremamente accattivante e godibile.
Dopo la titletrack Strut, la settima traccia – Frankestein – rappresenta un cambio di ritmo notevole: al rock dei precedenti brani sostituisce un’armonia delicata, sostenuta semplicemente da una chitarra elettrica e dal sax. Si tratta di uno degli ultimi momenti riusciti del disco, assieme forse alla successiva She’s a Beast, una dolce ballata suonata quasi esclusivamente da una chitarra acustica ed una elettrica.
I’m a Believer, Happy Birthday, I Never Want to Let You Down risultano purtroppo i brani più deboli dell’intero album e posti di fila pesano fin troppo sull’ascolto complessivo dell’album. La chiusura, più riuscita, è invece affidata alla cover dei Miracles, Ooo Baby baby.
In sostanza Strut può essere considerato un buon album che però niente aggiunge alla carriera di Lenny Krevitz, ma capace comunque di proporre qualche pezzo interessante e di piacevole ascolto.
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