Tomorrow’s Modern Boxes (2014), secondo lavoro in studio del Thom Yorke solista, riapre una controversa questione che risale praticamente al lontano Hail to the Thief del 2003, per alcuni il primo vero disco di Thom Yorke, per altri l’ultimo vero disco dei Radiohead. Fatto sta che da quella lontana Creep dell’altrettanto lontano 1993 ne è passata di acqua sotto i ponti, e i Radiohead ne hanno fatti di giri di boa.
Tomorrow’s Modern Boxes è a tutti gli effetti un album di Thom Yorke. Più intimista rispetto al precedente The Eraser (2006), dal punto di vista dell’arrangiamento si presenta, nel suo insieme, decisamente poco stratificato. Praticamente banditi gli strumenti a corda, a fare capolino nei canali del mixer di un sapiente Nigel Godrich (storico produttore dei Radiohead) sono quasi solo i tasti di sintetizzatori e pianoforti, la/e voce/i dello zio Thom e una batteria elettronica (forse più sintetica che elettronica) dai tempi spesso spezzettati nella migliore tradizione Selway.
Ad aprire gli otto brani dell’album è A brain in a bottle col suo vorticoso giro di synth (o, se preferite, un loop) sapientemente pannato (in gergo tecnico il panning è la gestione dei canali destra/sinistra) quasi a ricordo di un On the Run di altri tempi (cfr. Pink Floyd, The Dark Side of the Moon), intervallato da interventi di Synth ad attacco lento e dalla voce, effettata ai punti giusti.
Segue a ruota Guess Again!, classica ballata di pianoforte alla Thom Yorke con testi crepuscolari e tempi scomposti in cui il basso è ospite a sorpresa. Godibile, ma niente di nuovo sul fronte occidentale.
Dall’atmosfera assai più soffusa è Interference, piccolo gioiellino dai synth leggeri e dagli accordi delicati che potenzialmente potrebbe durare un’eternità senza stancare, ma che viene chiuso a soli 2 minuti e 55. Pochi secondi, per i suoi standard.
Ottima prova stilistica per Nigel Godrich quella di The Mother Lode, 2 step elettronico che per alcuni è sperimentazione pura, per altri è un deja vù dal succitato The Eraser, per altri ancora (nella fattispecie gli addetti al settore) un efficace compendio di pragmatica musicale sul come utilizzare una DAW (Digital Audio Workstation). Se una volta si diceva che i Radiohead facevano musica da chitarristi, sembra assodato che il passo successivo sia stato fatto. È musica da fonici.
A seguire Truth Ray senza infamie, né tanto meno lodi, fatta eccezione per un utilizzo creativo (ma certamente non più rivoluzionario) delle tracce di voce riprodotte al contrario nel finale.
Nell’ approssimarsi della fine dell’album, la natura delle canzoni prende una piega più elettro-ambient. There is no ice (for my drink) è sperimentazione elettronica nuda e cruda. Un pad (un sintetizzatore dalle sonorità soffusa, insomma), risuona per otto minuti, variamente accompagnato da una batteria ripetitiva. Più movimentata, per quanto possa essere movimentata la ambient di Thom Yorke, Pink Section coi suoi pad e il suo pianoforte volutamente stonato attraverso la registrazione a nastro. Qualche buontempone indica la presunta somiglianza con la colonna sonora di Silent Hill. Secondo alcuni è un complimento. I 38 minuti dell’album si chiudono con Nose grow some, altro brano con batteria elettronica scomposta, pad melliflui e voce effettata con reverbero a volontà.
Thom Yorke di fatto è colui che ha fatto degli On a Friday i Radiohead. E, anche se la critica tiene a sottolineare che “Yorke =/= Radiohead”, c’è da ammettere una cosa. Detto che, come tanti altri artisti, per apprezzare questo tipo di musica bisogna trovarsi in un determinato mood e che “o li ami o li odi”, ciò che ha fatto dei Radiohead i Radiohead (o di Thom Yorke Thom Yorke, che dir si voglia), è stata la brillante capacità di dividere l’opinione pubblica. Anche stavolta, come in altre, secondo alcuni Tomorrow’s Modern Boxes rappresenta la nuova frontiera della musica elettronica, secondo altri, sono solo trentotto minuti in cui non succede niente.
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