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Trent’anni dopo torna “Crêuza de mä” di Fabrizio De André

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Scritto da: Manuel Amodei , febbraio 20, 2014

A distanza di trent’anni dalla prima pubblicazione, il 20 febbraio verrà rilasciata nei negozi una ristampa di Crêuza de mä, undicesimo album di Fabrizio De André, nato dalla collaborazione con Mauro Pagani.

La nuova edizione del disco, curata dallo stesso Pagani, sarà divisa in due CD e conterrà le versioni originali dei brani, una versione inedita di Jamin-a, nuovi remix della stessa title-track, Crêuza de mä, di Sinàn Capudàn Pascià e di  duménega, più un duetto di Mauro Pagani con Andrea Parodi su D’ä mê riva e la raccolta La mia Genova, con i brani dell’album riproposti dal vivo durante il tour del 1984.

Il cofanetto, oltre ai due cd, comprenderà anche un libro arricchito dai contributi di Sandro Veronesi, del musicista Paolo Fresu, di Renzo Piano, Giovanni Soldini, Antonio Marras e altri.

Crêuza de mä, pubblicato nel 1984, rappresenta l’ennesima evoluzione del cantautore genovese: si discosta quasi completamente dalle prime ballate ispirate da Brassens, da Leonard Cohen, caratterizzate dall’uso quasi esclusivo di voce e chitarra; lontani sono anche i contesti spirituali de La buona novella o l’ermetismo di Volume 8, a cui De André lavorò collaborando con De Gregori. Influenzato soprattutto dalla presenza di Pagani che sceglierà di usare strumenti musicali tipici della tradizione mediterranea, balcanica e mediorientale, Crêuza de mä risulta essere uno dei primi esempi di world music, cinque anni prima di Peter Gabriel, che farà del suo Passion un caposaldo del genere.

Il disco, definito dallo stesso autore “l’Odissea del Mediterraneo”, è interamente cantato in genovese, un dialetto fortemente influenzato dalle varie culture mediterranee, ricco di voci greche, arabe, spagnole o francesi e per questo più coerente di altri con le atmosfere dell’album. Sulla dignità dei dialetti De André dirà successivamente: “Io penso che le vere lingue madri, in Italia, una Nazione così giovane per permettersi il lusso di pensare che la propria lingua sia l’italiano, siano gli idiomi minori, le lingue locali che d’altra parte hanno anche la funzione di nutrire la lingua maggiore. (…) Pasolini diceva che il dialetto è il popolo e il popolo è l’autenticità, in effetti per fortuna nelle nostre città vengono ancora molto parlati, malgrado l’ostracismo della televisione.”

Genova è presente sin dal titolo dell’album: la crêuza è una tipica stradina ligure, spesso delimitata da mura, che dalle colline porta in piccoli borghi; la crêuza di mare rimanda all’immagine poetica del mare che, in tempesta, assume striature simili a strade. Fa poi da sfondo a quasi tutte le canzoni del disco.

Crêuza de mä, brano di apertura, racconta del ritorno notturno dal mare (‘n scitu duve a l’ûn-a a se mustra nûa /un posto dove la luna si mostra nuda) di alcuni marinai che approdano a riva quasi come estranei, con la rassegnazione di chi sa di essere costretto ad un viaggio perpetuo. Nel finale, alla musica sono accostati gli schiamazzi del mercato della città, che aprono poi la seconda traccia.

In Jamín-a, De André esalta il corpo della protagonista, una lupa di pelle scura e dalla lingua infuocata. Durante il tour, per presenta la canzone dirà: “Jamín-a è un’ipotesi di avventura positiva che in un angolo della fantasia del navigante trova sempre e comunque spazio e rifugio, è l a compagna di un viaggio erotico, che ogni marinaio spera o meglio pretende di incontrare in ogni posto, dopo le pericolose bordate subite per colpa di un mare nemico o di un comandante malaccorto”.

Introdotto dalla voce dei Presidenti Reagan e Ariel Sharon, Sidun è il canto disperato di un padre che assiste alla morte violenta del figlio, travolto da un carro armato. De André abbandona momentaneamente Genova e ambienta il brano a Sidone, Sidun in genovese, città del Libano teatro di una guerra civile.

Sinàn Capudàn Pascià è, a detta dello stesso autore, un “vademecum dell’arrampicatore sociale”. In questo brano, ambientato nell’antica Genova, si racconta la vera storia di Scipione Cicala, un visconte genovese catturato dai turchi durante uno scontro navale; questi, dopo aver salvato la vita del Sultano e dopo aver ripudiato la propria fede, riesce a diventare Gran visir.

Nelle due canzoni successive De André descrive le figure di due emarginati, un tòpos della discografia del cantautore che troverà piena affermazione in Anime salve. La pittima è l’esattore dei debiti privati; nel brano si parla di un personaggio le cui caratteristiche fisiche non gli hanno permesso di scegliere un altro mestiere, “un uccello che non riesce ad aprire le ali ed è destinato a nutrirsi dei rifiuti dei volatili da cortile”. In  duménega si racconta, con estrema ironia, della passeggiata domenicale concessa alle prostitute genovesi, relegate per tutto il resto della settimana in un quartiere della città, un ghetto.

D’ä mê riva, delicatissimo brano di chiusura, riprende il discorso dell’eterno viaggiare cominciato in Crêuza de mä. Qui un marinaio, ormai pronto per un nuovo viaggio, è costretto a salutare la propria amata rimasta sulla riva e la propria Genova. Una scena straziante che De André spiega con queste parole: “È un momento sottilmente drammatico, un momento che si vive come accecati da un controsole, e che suscita la nostalgia nel momento stesso in cui l’imbarcato fa l’inventario del suo baule da marinaio preparatogli dalla moglie: tre camicie di velluto, due coperte, il mandolino e un calamaio di legno duro. Della compagna della vita resta al marinaio soltanto una fotografia di quando lei era ragazza”.

Tag:Crêuza de mä, Fabrizio De André, Mauro Pagani

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